Tonezza, 19 agosto 2003
“Zeno, parché el fogo nol taca? Che legna gheto catà?..Ghe metėmo la carbonèla?..
Zeno, parché la carne la se taca cussì a sta graticola?..
Zeno parché el fumo el gira cussì? ... El me vien dosso...
Fabio dai no lamentarte sempre! Cogli el momento, no pensare ad altro...sempre a lamentarte, come a casa...lassa stare na volta tanto! Lassa che i faga, jè zoveni. No preocuparte...”1
Fabio non ha detto praticamente nulla ed io non mi sento responsabile del comportamento della graticola d’acciaio inossidabile portata fin quassù a 1700 m nella conca del rifugio “Giuseppe Rumor”, sopra Tonezza.
Marisa teme il silenzio, per lei una nube nera; usa le parole come sassi per squarciarla e vedere il sole dietro; le usa anche per arrostire braciole, salsicce, pancetta, wurstel, e polenta con le braci di legna di montagna raccolta lungo il sassoso sentiero che scende ad Arsiero, dove tentavamo di trovare l’acqua, che per Marisa “è la vita”.
“Che bello dove gh’è l’acqua, el ruscello, el laghetto,..el mare…e tuffarse nell’acqua… fresca…ah che bello!”2, dice.
Chiude gli occhi, inclina di lato la testa ed allarga le braccia sollevandosi in punta di piedi come per affiorare su quell’acqua fresca e nuotare.
L’acqua tra le montagne della val Posina sembra una rarità, specie in un’estate torrida e secca come questa. Il ciclista di Rovereto che in Mountain bike faticava tra i sassi del sentiero, interrogato da Marisa: ”C’è acqua più in basso?”, la guarda con compassione.
“Macché acqua”, dice, “non so proprio che siano queste” aggiunge, mentre grosse gocce di sudore gli cadono sulla cartina, stesa da Daniele sul cofano della Punto, dove l’indice ansioso di Marisa segue tortuosi e deboli segni azzurri .
“Ma più in giù…” insiste Marisa con tenace speranza.
“Zo’ l’è no schifo più che qua”3 aggiunge il ciclista, un po’alterato per la fatica.
Nella conca, sotto un cielo azzurrissimo solcato da nuvole bianchissime, ricca di lamponi, di mirtilli e di mughi con le pignette per la grappa (“lei che se ne intende?” mi ha chiesto una signora vedendomi con il bastone da trekking ed il gilet pieno di tasche “è qui che si raccolgono le pignette di mugo da mettere nella grappa?”: è così che l’ho imparato!), c’è solo una pozzanghera, là in basso, e Marisa deve accontentarsi.
In realtà il posto è molto bello per un picnic, ed accendere il fuoco nel barbecue non è pericoloso.
I boschi sono distanti, non come nello stradone erboso dove Marisa intendeva accamparsi nonostante l’esplicito divieto di accendere fuochi. “Ma noi stiamo attenti!”, diceva.
Per fortuna non ha vinto ed ora siamo tra bellissime ondulazioni verdi vicino al cielo.
Nonostante l’assenza di acqua, la grigliata riesce benissimo. Bisogna vederla Marisa come si impegna a spostare e rigirare braciole e polenta, con le mani! Si scotta, dice che lei non sente niente, ma le cuoce in modo perfetto. Non è la prima volta, la conosco: così è quando prepara la grigliata nel nostro camino la notte di Capodanno, così è stato nel picnic a Gallio alcuni anni fa.
Nicolò è entusiasta anche dei wurstel e chiede a Giovanna perché non glieli fa mai.
Una bella passeggiata con Fabio lungo la strada che ci porterebbe a Folgaria.
Daniele e Nicolò che decidono di salire nel punto più alto seguendo il crinale e lanciano il frisbee tra le ondulazioni verdi.
Daniele e Marisa che raccolgono lamponi.
Fabio che sistema gli arnesi del picnic.
Giovanna che osserva seduta, anche quando io cerco di raggiungere Nicolò e Daniele seguendo la strada asfaltata.
Un cagnetto bianco e nero tipo Billy, abbandonato o perdutosi, sfamato da Fabio con quanto rimasto del nostro pranzo, che ci segue convinto di aver trovato finalmente nuovi e generosi padroni.
Insomma facciamo e vediamo tante cose ed il pomeriggio scorre sereno. Con la sera che avanza scendiamo a Tonezza. Dopo qualche errore e manovre impegnative (tipo la discesa in retromarcia della stretta stradina che affianca il villaggio dell’Aereonautica Militare), arriviamo nello spiazzo predisposto per i picnic. Avremmo dovuto arrivarci a mezzogiorno. Il posto, una conca circondata dai monti è molto bello, sono le otto (ora legale), ed è assolutamente quieto. La luce del tramonto colora il cielo e le vette ad est con un morbido vermiglione dorato. Nessuno siede ai tavoli del picnic, mentre con ogni probabilità a mezzogiorno erano completi. Ci siamo solo noi e prepariamo ottimi panini con prosciutto e Montasio.
Devo dire che per fortuna non l’abbiamo trovato per il pranzo: è strano ma è già la seconda gita in cui il caso sceglie per me le soluzioni migliori.
La sera scende sempre in fretta e l’ora di tornare arriva. Una sottile tristezza mi sfiora perché è un piacere che finisce. E’ vero, ho una gioia in più da ricordare, ma anche una in meno da costruire. Gioco a frisbee con Nicolò e Daniele nel prato verde, finché il blu ci impedisce di vedere il disco.
Partiamo.
“Ecco, ritorniamo alla quotidianità” dice Nicolò.
Stiamo uscendo dall’autostrada. Fra poco saremo a casa. Nicolò che ha guidato per l’intera gita, si rivolge a Daniele, un po’ scherzando ed un po’ no.
Anch’io ho quel pensiero, ma con un’ironia più debole. Sta terminando qualcosa di bello, che è entrato nel cuore, dove rimarrà per molto tempo; nel mio per sempre.
Sono seduto in silenzio sul sedile posteriore della Punto. E’ il primo lungo viaggio affidato a Nicolò, interamente.
Nel buio, interrotto dalle luci del cruscotto, tagliato dai fari delle auto ed attenuato dal giallo-arancio dei lampioni a vapori di sodio, ascolto in silenzio suoni e parole dell’autoradio accesa, ed i fruscii quando Daniele cambia frequenza. Alcuni brani di concerti di musica classica moderna, con rumori comuni e casuali, grida e percussioni, ci hanno fatto sorridere. Io ho ricordato uno scherzo televisivo in cui Marco Balestri invitò l’attrice Dalila Di Lazzaro per consegnare un premio ad un maestro solista, virtuoso del triangolo, che proponeva il pezzo con un impegno che esaltava qualità che l’attrice non coglieva; Nicolò, il film con Alberto Sordi che assiste ad un’opera moderna. Alla fine del primo atto, la moglie chiede cosa stanno facendo gli orchestrali da tre quarti d’ora. Sordi le spiega che hanno appena finito di accordare gli strumenti.
Guardo le mani di Nicolò sul volante ed alla sua destra il profilo ricciuto di Daniele.
E penso.
Penso alla serenità del giorno appena trascorso.
Penso alle cose belle del passato.
Penso a chi ha accompagnato la mia vita che, con la sua parte di geni aggrappati alle mie cellule, vive nella mia coscienza l’intenso momento.
Sulla Citroen ZX di Fabio, che ci precede, Giovanna si gira per controllare se stiamo seguendo.
Ho davvero provato una serenità ed una felicità che non si cancelleranno.
Però il giorno è finito, la gita si è conclusa.
E’ la parola “conclusa” che mi gira nella mente, con una percussione leggera ed insistente che scandisce lo scorrere del tempo, e, come una piccola minaccia, mi accelera lievemente i battiti del cuore.
La mia è un’età di transizione e la barca che mi trasporta dalla riva del passato, rolla e beccheggia. Non so se sia vento, o le onde, o gli errori del timoniere. E’ l’età in cui su molte cose, desideri o speranze, s’incide la parola definitivo. Un’età d’arrivo che impone di ripartire verso traguardi più umili. Cominciare una nuova vita, cominciare nuovi pensieri, nuove emozioni. Tutto deve nascere da ciò che si è concluso.
La vita dei figli per la quale non siamo e non dobbiamo essere più indispensabili, è la nostra nuova vita, mentre il nostro amore per loro non comincia ma continua e cresce ad ogni loro nuova capacità e libertà. La felicità si avvicina alla vetta da cui scivolerà una progressiva solitudine, inevitabile e necessaria, che mi incute timore.
Per questo “il ritorno alla quotidianità” che completa la felicità di un giorno, è l’inizio di giorni incerti. E’ nella quotidianità che si completa la traversata dell’età, è nella quotidianità che si annidano insidiose e silenziose tempeste per l’animo, ma il giorno speciale dovrà essere un faro capace di rischiararne le ombre.
“E’ stato bravo Nicolò” mi chiede Giovanna seduta, alla luce della luna, sullo sdraio accanto al mio, poco dopo l’arrivo.
Aspettiamo, come tante sere in questa estate, il volo silenzioso del nostro barbagianni. Io, che ne sono stato e sono orgoglioso, le rispondo mentre guardiamo le stelle nel blu:
”Sì. E mi sentivo un re felice mentre guardavo le sue mani sul volante, come fosse uno scettro consegnato ed afferrato con delicatezza per trasferirmi la sicurezza che, forse, lui aveva ricevuto da me, nei nostri viaggi più lunghi alcuni anni fa, pochissimi per me. Forse ricordandoli, durante il tragitto mi ha chiesto: ’ Qual era, papà, il grill in cui ci fermavano al ritorno dai tornei di scacchi?’ ”
Ma la bellezza o dolcezza o la delicatezza del passaggio acuisce gli effetti della transizione.
Mi accorgo che tutto ciò che facevo e che sembrava un gioco mio, era funzione di una crescita affidata alla mia protezione.
Ora la mia protezione è meno necessaria e le azioni, i progetti, i giochi, le passioni che ritenevo rivolte a me stesso sembrano dissolversi.
E mi sento impreparato a tornare a vivere per vivere, come un bambino. “
1
Zeno perché il fuoco non si accende. Che legna hai trovato? Mettiamo la carbonella? Zeno perché la carne si attacca in questo modo alla graticola?Zeno perché il fumo fa questo giro? Mi viene addosso? Fabio non lamentarti sempre! Cogli il momento...non pensare ad altro. Sempre a lamentarti...come a casa. Lascia perdere una volta tanto. Lascia che facciano! Sono giovani. Non preoccuparti.
2
Che bello dove c’è l’acqua, il ruscello, il laghetto,..il mare...e tuffarsi nell’acqua… fresca...ah che bello!
3
Giù è uno schifo più di quassù
Libro
il racconto è inserito anche in questo libro cartaceo